Busto di Medusa di Bernini

Nelle Metamorfosi, Ovidio narra che Medusa, la più bella e mortale delle Gorgoni, aveva il potere di pietrificare chiunque osasse incrociare il suo sguardo. Sorpresala nel sonno, Perseo riuscì a troncarle la testa guardando l’immagine riflessa nello scudo di bronzo donatogli da Minerva. L’eroe, dopo aver liberato Andromeda e sconfitto Fineo grazie all’intatto potere pietrificante della testa di Medusa, ne fece dono a Minerva che la pose ad ornamento della sua egida, e poi del suo scudo, come terribile arma per sconfiggere i nemici della ragione e sapienza, virtù da lei incarnate. Di qui l’uso antichissimo, ripreso nel Rinascimento, di ornare gli scudi da battaglia e da parata con la Testa di Medusa come arma per terrorizzare i nemici, ma anche simbolo della virtù e saggezza di chi impugna lo scudo. Scartando la raffigurazione della testa troncata di Medusa proposta dalla scultura classica, rinascimentale e manierista e magistralmente ripresa nell’ultimo decennio del Cinquecento a Roma da Caravaggio, nello scudo da parata dipinto per il cardinale Del Monte, poi donato al Granduca Ferdinando de’ Medici e da Annibale Carracci, negli affreschi dipinti tra il 1598 e il 1601 nella Galleria del Palazzo Farnese, Gian Lorenzo Bernini scolpisce un vero e proprio busto-ritratto di Medusa, vivente, fermata nel momento transitorio della sua metamorfosi. Il mito, narrato da Ovidio, che racconta dei bellissimi capelli biondi di Medusa trasformati da Minerva in orride serpi come punizione per aver consumato un amplesso con Nettuno nel tempio delle divinità femminili di Fede e Verità, è rivisitato in modo assolutamente originale alla luce di alcuni versi poetici di Giovan Battista Marino. In un noto madrigale tratto da La Galeria (1620), il poeta finge che sia una mirabile statua di Medusa a parlare: “(…) Non so se mi scolpì scarpel mortale, / o specchiando me stessa in chiaro vetro / la propria vista mia mi fece tale”. Il mito classico è rovesciato per esaltare la virtù dell’ignoto scultore: non è la Gorgone ad impietrire con lo sguardo i suoi nemici, ma è Medusa stessa che, cogliendo per fatale errore la sua immagine in uno specchio, sembra essersi trasformata in marmo. Un’altra prova delle capacità di Bernini di cogliere nella scultura il climax di un’azione transitoria e la contraddittoria complessità di uno stato d’animo umano. Ma il Busto di Medusa, nelle intenzioni dell’artista è anche una raffinata metafora barocca sul potere della scultura e sul valore dello scultore. Come Medusa “dimostra la vittoria, che ha la ragione degli inimici contrarij alle virtù” (Cesare Ripa, Iconologia, 1603, 426), la Medusa di Bernini lascia letteralmente “impietriti” dallo stupore i suoi nemici e detrattori con la sua arma più affilata: la virtù del suo scalpello. Benché a tutt’oggi manchino prove documentali, l’opera è stata datata da Irving Lavin ai primi anni del pontificato di Innocenzo X Pamphilj, tra il 1644 e il 1648, quando l’artista fu allontanato dalla corte pontificia come creatura dei Barberini e la sua fama fu temporaneamente oscurata. In un recente saggio, pubblicato nel 2007, Irving Lavin torna sull’argomento con inedite riflessioni e stabilisce un più stretto rapporto tra il Busto di Costanza Bonarelli, scolpito tra il 1636 e il 1638, e quello di Medusa, forse realizzato da Bernini come contrapposto morale del primo, entrambi comunque ideati come personalissima riflessione dell’artista ed entrambi successivamente donati o ceduti ad altri dall’autore. In base a questa nuova ipotesi di lettura dell’opera la datazione del Busto di Medusa potrebbe essere lievemente anticipata alla fine degli Anni Trenta del Seicento.

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Nelle Metamorfosi, Ovidio narra che Medusa, la più bella e mortale delle Gorgoni, aveva il potere di pietrificare chiunque osasse incrociare il suo sguardo. Sorpresala nel sonno, Perseo riuscì a troncarle la testa guardando l’immagine riflessa nello scudo di bronzo donatogli da Minerva. L’eroe, dopo aver liberato Andromeda e sconfitto...