Una mostra suddivisa in tre sezioni quella di Samuel Beckett dal 7 novembre in esposizione alla Casa dei Teatri a Roma. La prima sezione della mostra racconta le messe in scena realizzate all’interno di Istituti penitenziari: nelle prigioni della mente e in quelle fisiche di Beckett si abbattono i muri, come si racconta nella versione “carceraria” di Aspettando Godot del 1957 del San Francisco Actor’s Workshop realizzato nel carcere di San Quentin. Così come nel lavoro di Gianfranco Pedullà nella Casa Circondariale di Arezzo (L’Apocalisse secondo Beckett, 2004) o di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza di Volterra (Un silenzio straordinario, ispirato a L’Ultimo nastro di Krapp, 2008) fino a Claudio Collovà con i ragazzi del Centro di Giustizia Minorile di Palermo (Eredi, 1998). Un’altra sezione della mostra mette “in scena” un teatro dal tratto astratto, in cui sono racchiusi i personaggi beckettiani assolutamente inconsapevoli. Tramite l’ausilio di modellini e di foto, l’architettura ermetica di Finale di Partita e i vari gradi di costrizione fisica di Giorni felici o di Commedia. Si attraversano le prigionie fatte di voci infernali che echeggiano dentro la mente, per arrivare alle “prigionie estreme” confinate all’interno dello spazio bidimensionale delle immagini televisive, che culmina nel 1981 con Quad, scritto per la televisione. L’ultima sezione offre uno spaccato sul dopo Beckett, uno sguardo sull’opera dell’irlandese per mani di altri autori o registi, a partire da Susan Sontag, la quale fu la prima a tuffarsi letteralmente tra le macerie, mettendo in scena Aspettando Godot nel 1993 nella Sarajevo ancora assediata. Dopo di lei, altri seguirono mettendo in scena Beckett in varie situazioni di “disagio” del mondo contemporaneo, tra i quali sono ricordate le messe in scena di Pippo Delbono con Barboni del 1997, la versione in dialetto calabrese U juocu sta’ finisciennu di Giancarlo Cauteruccio del 1998, e ancora per i giovani della  “generazione perduta” Endgame di Makoto Sato del 2006), oppure davanti agli sfollati dell’uragano Katrina a New Orleans(2007), in mezzo alla manifestazione Occupy Wall Street (2011) e persino appena fuori dalla zona d’evacuazione della centrale nucleare di Fukushima (2011).

Tutta l’opera di Samuel Beckett può essere considerata il racconto di “un’umanità inconsapevolmente imprigionata” e la dimensione di costrizione fisica e mentale caratterizza il lavoro del drammaturgo irlandese. Sono passati 60 anni dalla prima mondiale di Aspettando Godot (Parigi, Théatre de Babylon, 5 gennaio 1953) e da allora questa e altre opere di Beckett hanno rappresentato una feconda fonte ispiratrice per la creazione scenica, sia per l’orizzonte della tradizione teatrale che per i linguaggi della sperimentazione, sino a toccare l’immaginario popolare, anche televisivo. La mostra evidenzia i cambiamenti e le costanti nell’approccio alle opere di Beckett, lambendo alcune delle espressioni sceniche che hanno focalizzato quell’idea di prigionia che si vuole indagare, un percorso in cui lo spettatore torna a riflettere sulla potenzialità del teatro di osservare, seppure da un’angolazione straordinaria, la realtà del proprio tempo, le incidenze filosofiche, le gabbie sociali che dalla metà del Novecento al nuovo millennio continuano a riproporsi con terribile attualità. È dagli anni Novanta, dopo la morte del drammaturgo, che le opere di Samuel Beckett hanno oltrepassato gli stretti confini del teatro dell’assurdo o del metafisico, rivendicando una complessità di approccio all’esistenza contemporanea ineguagliabile, collegandosi alla matrice delle arti visive e al concetto di un tempo ossessivo, scranno della Storia e metafora della solitudine, rivelandosi uno dei momenti più estremi del pensiero in teatro. La mostra, attraverso fotografie, modellini, installazioni scenografiche e interviste, approfondisce  il concetto di prigionia (in)visibile e (in)consapevole che percorre le messe in scena delle opere di Beckett sottolineandone  i cambiamenti e le costanti. La prima sezione della mostra racconta le messe in scena realizzate all’interno di Istituti penitenziari: nelle prigioni della mente e in quelle fisiche di Beckett si abbattono i muri, come si racconta nella versione “carceraria” di Aspettando Godot del 1957 del San Francisco Actor’s Workshop realizzato nel carcere di San Quentin. Così come nel lavoro di Gianfranco Pedullà nella Casa Circondariale di Arezzo (L’Apocalisse secondo Beckett, 2004) o di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza di Volterra (Un silenzio straordinario, ispirato a L’Ultimo nastro di Krapp, 2008) fino a Claudio Collovà con i ragazzi del Centro di Giustizia Minorile di Palermo (Eredi, 1998). Beckett è anche un paradossale innesto di ispirazione per un teatro immateriale, un teatro dal tratto astratto come un’altra sezione della mostra mette “in scena”, in cui sono racchiusi i personaggi beckettiani assolutamente inconsapevoli. Tramite l’ausilio di modellini e di foto, l’architettura ermetica di Finale di Partita e i vari gradi di costrizione fisica di Giorni felici o di Commedia. Si attraversano le prigionie fatte di voci infernali che echeggiano dentro la mente, per arrivare alle “prigionie estreme” confinate all’interno dello spazio bidimensionale delle immagini televisive, che culmina nel 1981 con Quad, scritto per la televisione. L’ultima sezione offre uno spaccato sul dopo Beckett, uno sguardo sull’opera dell’irlandese per mani di altri autori o registi, a partire da Susan Sontag, la quale fu la prima a tuffarsi letteralmente tra le macerie, mettendo in scena Aspettando Godot nel 1993 nella Sarajevo ancora assediata. Dopo di lei, altri seguirono mettendo in scena Beckett in varie situazioni di “disagio” del mondo contemporaneo, tra i quali sono ricordate le messe in scena di Pippo Delbono con Barboni del 1997, la versione in dialetto calabrese U juocu sta’ finisciennu di Giancarlo Cauteruccio del 1998, e ancora per i giovani della  “generazione perduta” Endgame di Makoto Sato del 2006), oppure davanti agli sfollati dell’uragano Katrina a New Orleans (2007), in mezzo alla manifestazione Occupy Wall Street (2011) e persino appena fuori dalla zona d’evacuazione della centrale nucleare di Fukushima (2011).

 

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Una mostra suddivisa in tre sezioni quella di Samuel Beckett dal 7 novembre in esposizione alla Casa dei Teatri a Roma. La prima sezione della mostra racconta le messe in scena realizzate all’interno di Istituti penitenziari: nelle prigioni della mente e in quelle fisiche di Beckett si abbattono i muri, come si racconta nella...